Marco Damilano
La mitezza è il contrario dell’arroganza, intesa come opinione esagerata dei propri meriti, che giustifica la sopraffazione. La mitezza è il contrario della protervia, che è l’arroganza ostentata. La mitezza è il contrario della prepotenza, che è abuso di potenza non solo ostentata, ma concretamente esercitata. Il protervo fa bella mostra della sua potenza, il potere che ha di schiacciarti anche soltanto con un dito, come si schiaccia una mosca o con un piede come si schiaccia un verme. Il mite è invece colui che “lascia essere l’altro quello che è”, anche se l’altro è l’arrogante, il protervo, il prepotente… Il mite non apre mai, lui, il fuoco; e quando lo aprono gli altri, non si lascia bruciare, anche quando non riesce a spegnerlo. Attraversa il fuoco senza bruciarsi, le tempeste dei sentimenti senza alterarsi, mantenendo la propria misura, la propria compostezza, la propria disponibilità».
Trovo queste parole in uno splendido libretto appena pubblicato dalle Edizioni dell’Asino. Si tratta dell’Elogio della mitezza che Norberto Bobbio tenne in una conferenza nel 1983 (pubblicato per la prima volta venticinque anni fa da Goffredo Fofi con “Linea d’ombra”). E mi è venuto in mente a proposito di quell’eurodeputato della Lega che si è esibito calpestando con la scarpa il dossier della Commissione europea sulla legge di Bilancio italiana. Oppure quella senatrice del Movimento 5 Stelle, ieri donna del popolo, oggi vice-presidente del Senato, che una settimana fa al raduno dei suoi compagni di partito si augurava la chiusura di tutti i giornali. E il suo capo Beppe Grillo che prometteva di cancellare i poteri del Capo dello Stato («sono troppi»), dopo che per difendere quei poteri legittimati dalla Costituzione qualche anno fa i suoi parlamentari erano saliti sul tetto di Montecitorio. Ma anche, in contemporanea, dal pulpito della stazione Leopolda, l’ex segretario del Pd Matteo Renzi che elencava le colpe e gli errori che hanno portato il suo partito al disastro elettorale il 4 marzo: le colpe e gli errori degli altri, naturalmente.
L’Arrogante, il Protervo, il Prepotente si materializza ogni sera sugli schermi televisivi. Trasforma ogni battaglia, anche quella sacrosanta per consegnare alla giustizia gli stupratori assassini di Desirée, la ragazza di sedici anni uccisa nel quartiere romano di San Lorenzo, in un palcoscenico, uno spettacolo per l’ostentazione di sé, salvo poi incrociare la contestazione. Popola la Rete, scaccia le buone argomentazioni e il gusto del dibattere per sopraffare, irridere, eliminare l’altro. C’è il Prepotente globale, quel Donald Trump che da due anni abita la Casa Bianca, il paladino e il motore di tutti gli altri protervi che guidano gli Stati. E c’è l’Arrogante locale, che invoca la superiorità, la supremazia, che parla in nome del popolo escludendo tutti quelli che non fanno parte del popolo suo, che divide il mondo in vincitori e vinti, laddove il mite vorrebbe vivere, scrive Bobbio, «in un mondo e in una storia in cui non ci sono né vincitori né vinti, perché non ci sono gare per il primato, né lotte per il potere, né competizioni per la ricchezza, mancano insomma le condizioni stesse che consentano di dividere gli uomini in vincitori e vinti».
Tempi duri, durissimi per i miti. Per restare miti bisogna armarsi di pazienza, sfidare l’incomprensione, abitare frontiere scomodissime, attraversare il fuoco sperando di non restare scottati. Bisogna confrontarsi con gli arroganti, i protervi, i prepotenti che da sempre scambiano i miti per gli arrendevoli, i cedevoli, e non riconoscono che il mite è un combattente fragile, debole, disarmato ma non molla mai per far avanzare la sua idea di mondo. Miti sono i centroamericani che a migliaia si sono messi in marcia verso la frontiera degli Stati Uniti. Miti sono, in Italia, Domenico Lucano e Ilaria Cucchi. Miti sono i lettori che hanno comprato e condiviso la copertina della scorsa settimana con quel cartello auto-ironico («Buonisti un cazzo!»: i miti non sono arrendevoli, appunto). Per restare miti di questi tempi servono i super-poteri: quelli che Grillo vorrebbe strappare al presidente della Repubblica e che Makkox ha restituito al suo legittimo proprietario. Sergio Mattarella è un presidente anti-populista eppure pop, lo descrive Giuseppe Genna, forse il più popolare dai tempi di Sandro Pertini. Eppure era considerato dagli osservatori e dai critici immobile come una mummia, silenzioso, in bianco e nero, fin troppo mite in questo tempo di guerrieri. Forse anche il regista della sua elezione, Renzi, confidava nella sua timidezza. E anche lui, come oggi Matteo Salvini e Luigi Di Maio, hanno sottovalutato la forza dei deboli, le granitiche convinzioni dei miti.
Tocca a Super-Mattarella custodire l’Italia nei giorni della tensione con l’Europa, delle agenzie di rating scatenate nella sfiducia sulla tenuta dei conti pubblici italiani, di una coalizione di governo che sul bilancio si gioca la futura campagna elettorale europea, ma anche i pesi e i ruoli attuali dei due leader. Il Paese rischia di finire stritolato dalla guerra tra due arroganze che nasconde due debolezze. L’Italia non può uscire dall’euro e dall’Europa, ormai lo riconoscono anche i leghisti e i 5S. E i vertici della Commissione europea che respingono il bilancio dell’Italia sono ormai in scadenza, pensano a costruirsi i futuri percorsi di carriera, come fa il socialista Pierre Moscovici, commissario francese agli Affari economici. Siamo fieramente europeisti, ma proprio per questo dobbiamo denunciare che il presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker è l’ultimo uomo politico che può chiedere rigore sui conti pubblici e rispetto delle regole. Già nel 2014 L’Espresso con il network International Consortium of Investigative Journalists (Icij) rivelò i LuxLeaks sul sistema fiscale lussemburghese e si domandò in copertina se fosse adatto a guidare l’Europa. Juncker, invece, è rimasto al suo posto, le inchieste sono state ostacolatee durante il suo mandato i partiti sovranisti e populisti hanno dilagato, fino a minacciare, dopo le prossime elezioni europee, di occupare in massa le poltrone delle istituzioni che usciranno da quel passaggio.
Nessun dubbio se l’alternativa è tra il rigore nei conti, la difesa e il proseguimento del progetto europeo da un lato, e il ritorno dei nazionalismi, delle piccole patrie e del caos da far pagare alle generazioni successive dall’altro. Ma se la partita politicamente si restringe a uno scontro tra arroganti, tra la coppia Juncker-Moscovici da una parte e Salvini-Di Maio dall’altra, il risultato si fa molto più incerto e lo spazio per chi vuole non distruggere ma cambiare l’Europa si fa inesistente. A soffocare, soprattutto, è quella sinistra europea che in questi anni si è prestata a fare da ruota di scorta dei conservatori, smarrendo la sua identità. È il dilemma che fa da sfondo anche alla sinistra italiana e a quel pezzo che si ritrova nel Pd.
Alla conferenza programmatica di Milano del partito in corso in questi giorni è stato invitato dal segretario Maurizio Martina come ospite d’onore il premier spagnolo Pedro Sánchez. A soli 46 anni può vantare una vita politica degna di un film: colpi di scena, ascese, cadute, resurrezioni. Fu eletto per la prima volta segretario dei socialisti spagnoli, il Psoe, nel 2014, e in questa veste capitò nella foto di gruppo dei leader della sinistra europea in camicia bianca alla festa dell’Unità di Bologna con Renzi fresco del trionfo del 40 per cento e presidente del Consiglio e con l’allora premier francese Manuel Valls. Nel 2016 provò a formare un governo, ma non ottenne i voti. L’apparato del partito, i notabili e i baroni locali, lo cacciarono dalla segreteria, lui si dimise da deputato, come aveva promesso ai militanti, per ripartire da zero. Alle primarie del 2017 ha riconquistato la guida del Psoe pur avendo contro tutto il vecchio establishment di partito, quattro mesi fa ha rovesciato il popolare Mariano Rajoy con un voto parlamentare ed è diventato premier, nelle stesse ore in cui in Italia giurava il governo Salvini-Di Maio. È più che abbastanza per interessare gli elettori smarriti del centrosinistra italiano, ma a Milano Sánchez è stato chiamato soprattutto per parlare di quanto fatto nelle ultime settimane. Un’alleanza con Podemos, il movimento di Pablo Iglesias che negli anni passati fu spesso paragonato a M5S, per votare insieme la legge di Bilancio. Aumento del salario minimo da 735 a 900 euro al mese, indicizzazione delle pensioni all’inflazione, interventi per l’edilizia popolare e contenimento degli affitti, riduzione delle tasse universitarie, equiparazione del congedo parentale per uomini e donne e, come se non bastasse, una tassa patrimoniale dell’1 per cento sui patrimoni superiori ai 10 milioni. La finanziaria più a sinistra della storia di Spagna, in accordo con l’Europa, oltretutto.
Potrebbe essere un modello per la sinistra italiana, a patto di superare due differenze rilevanti. Attualmente, da noi, dopo tanto discutere e dopo una serie di catastrofiche sconfitte (l’ultima in Trentino), non c’è né il Psoe né Podemos. E sulla exit strategy c’è la babele. Alla Leopolda, per esempio, tra i resistenti renziani, una prospettiva come quella spagnola si trasformerebbe nel via libera per l’ennesima scissione, con i comitati renziani già pronti a fare da ossatura a un nuovo partito. Uno degli interventi di punta è stato affidato all’ex bersaniano Umberto Minopoli che ha indicato il nuovo nemico: «il populismo di sinistra». Colpa loro se si perde, colpa dei populisti di sinistra che non hanno riconosciuto nel renzismo «la stagione più densa di riforme della storia repubblicana». Peccato che gli elettori non se ne siano accorti. Qualcuno, tra i seguaci di Renzi, lontano dal palco, si è spinto più in là. Fino a ipotizzare, in caso di caduta prematura del governo Conte, uno scenario a sorpresa: un governo di transizione con il compito di scrivere una riforma costituzionale in senso presidenziale, fondato sul patto inedito Salvini-Renzi. I due Matteo uniti per riformare lo Stato e spartirsi le spoglie di quel che resterà in piedi dell’attuale sistema. Fantapolitica? Forse, ma tutto questo spiega perché Renzi ha difeso ancora una volta il no all’alleanza con M5S, «nonostante durante la crisi di governo l’accordo fosse molto vantaggioso in termini di poltrone» (quali? Trattate da chi?). E spiega perché il candidato alla segreteria Nicola Zingaretti segua una strategia opposta: recuperare i voti persi dal Pd a sinistra in direzione dei 5 Stelle. Lo stesso intende fare Martina, tentato fino all’ultimo dall’idea di candidarsi.
Una volta stabilita finalmente la data del congresso Pd e scelto il nuovo leader, resterà ancora tutto da fare. Ricostruire il principale partito del centrosinistra, oggi evaporato dal punto di vista organizzativo, culturale, ideale. Sperimentare la possibilità che dai movimenti che si stanno costituendo in modo spontaneo in tutta Italia nasca qualcosa di simile al Podemos spagnolo. E cercare il pezzo mancante, l’ala cattolica, moderata, popolare, merkeliana si direbbe, che dà segni di insofferenza nei confronti di Salvini. Si prepara per il 30 novembre un’iniziativa che metterà insieme le principali associazioni ecclesiali (Azione cattolica, Acli) con la Cisl e la Comunità di Sant’Egidio sull’Europa.
Altre seguiranno. In una ricerca che è appena all’inizio. In un cammino che non può prescindere da quella che Pietro Polito nell’introduzione all’elogio di Bobbio definisce «la lega dei miti»: «Uomini e donne comuni che nell’ora della scelta ritrovano in sé i valori più antichi e semplici». Importante è che, in questo cammino, ognuno permetta all’altro di esistere, lasciare essere l’altro quello che è.