Tom Wolfe scrisse prima di morire un libretto dal titolo Il decennio dell’Io. Troppo buono. Già negli anni ’80 un altro grande americano – Christopher Lasch – ne La cultura del narcisismo aveva descritto mirabilmente la deriva individualistica, edonistica e consumistica della società americana, iniziata per l’appunto più di trent’anni fa e poi allargatasi alla nostra Europa. Nel frattempo il narcisismo da pecca individuale è diventato una patologia sociale e l’individualismo permea i modelli economici, politici e culturali del nostro tempo. Famosa la frase di Margaret Thatcher: “la società non esiste”, ma solo gli individui con i loro interessi.
Più o meno nello stesso periodo del trionfo della Thatcher e di Reagan la rivoluzione neoliberista del mercato selvaggio e quella digitale dei like e della finzione dei “social” hanno fatto dell’individuo una monade sempre di più autoreferenziata e dell’egomania un comportamento, una tendenza culturale e sociale, uno stile di vita sempre di più insopportabile.
Eppure per tanto tempo – grazie alle culture del cattolicesimo sociale e del miglior socialismo in Europa e all’idea comunitaria in America – abbiamo avuto dei validi anticorpi sociali e per certi versi antropologici contro la degenerazione individualista e conformista. Si sono create istituzioni sociali fondate sulla cooperazione, il mutuo appoggio, l’associazione e che hanno contribuito a garantire la coesione sociale e relazioni pacifiche. Lo ricorda Richard Sennett nel suo libro Insieme, ma anche quasi un paio di secoli prima un nobile francese Alex de Tocqueville che ne La democrazia in America aveva studiato il valore dei cosiddetti corpi intermedi nell’assicurare la qualità della convivenza e della vita civile.
Negli ultimi anni, invece, si è teorizzata l’inutilità dei corpi intermedi (associazioni, sindacati, ecc.) e si è praticata la cosiddetta “disintermediazione”: il rapporto diretto tra decisori (politici, imprenditori, ecc.) e individui estraniati dalle relazioni sociali ed economiche, dal vissuto e dalle identità collettive, dal gruppo sociale di appartenenza. Tutto risolto nel clic dei social, nella consultazione del sondaggio, nella comunicazione passiva dove al massimo si fa il tifo.
Certo, ci sono milioni di persone che sono attive in organizzazioni sociali e in associazioni non profit, che si dedicano a una buona causa, alla solidarietà all’impegno per gli altri. E questo è sicuramente un bene. Eppure il virus dell’individualismo e del narcisismo (e anche del cinismo) ha cominciato ad attraversare una parte di questo mondo, magari con l’assunzione di logiche di mercato o di comunicazione subalterne all’ideologia di un modello economico, politico e culturale nefasto.
Riscoprire l’idea collettiva o di collettivo non è un tributo al ’68, di cui quest’anno celebriamo il cinquantenario: è un’esigenza fondamentale per ricostruire le fondamenta di una democrazia sempre più vuota e di una società che si sta sfilacciando. E naturalmente di ridare forma alle basi di un’azione collettiva. Tanti politici hanno dichiarato che “il noi viene prima dell’io”. Ma quel noi, per loro, è solo un plurale maiestatis che camuffa l’incapacità di voltare la pagina di questi trent’anni.
Ecco perché alcune organizzazioni (Gli Asini, Lunaria, Else, Zalab, Un Ponte Per…, Antigone, Redattore Sociale, Rete della Conoscenza, Lettera 22, Scuola Danilo Dolci) insieme ad alcune persone (più di 40: da Saskia Sassen a Nicola Lagioia, da don Vinicio Albanesi a Francesca Koch, da Loris De Filippi a Gianfranco Bettin, ecc.) danno vita a Collettiva: una iniziativa che – con tante attività: seminari, incontri, azioni concrete – va nella direzione della ricostruzione di una cultura politica e sociale, capace di mettere in moto un’azione collettiva rivolta al cambiamento, alla trasformazione dell’ordine delle cose.
Tornare a studiare, a capire cosa succede intorno a noi – nella società, nell’economia e nella politica – senza accontentarsi della superficialità estemporanea di una comunicazione ridotta a consumo. Imparare a saper fare – insieme – consapevoli che nessun tecnicismo fine a sé stesso, senza una visione del mondo, un punto di vista critico sulla realtà ti porta lontano. Agire per cambiare, sapendo che lo si fa tutti insieme e non consolandosi con l’estetica del gesto individuale.
Riscoprire l’idea collettiva e il collettivo è perciò fondamentale.